martedì 19 aprile 2016

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"è"’essere e?´??? "è" senzaperché l’evento l’event’essere nel nulla dell’evento eventux dell’evento’eventux. L’evento senzaperché l’esserne nihilx. Il nihilx "è evento" è esserne È L’evento nel nulla è l’eventità esserEvento"è"eventO È senzaperché nihilx vi è nulla"’eventonullassoluto nullità dell’eventO: l’essere è il nulla, perché è’


NIHIL POiESIx SENTIERO Nihilpoíesis POESIAdell’essere nihildell’essere nulla-dell’esserne nihilpoíesis poesia-sentierOdell’essere al di là è già senzaperché perché nihilx è l’evento Senzaperché al di là della metafisica-tramontante Dio-deve-morire.
La poíesix Aldilà’ la poíesis è senzaperché si fonda eventodell’essere. La poíesix ultimeventità sentiero-poíesis nihileventa nihilx"senza perché" senza«morte»si fonda’ Al di là L’è essere poetante è essere pensante.
L’ è pensiero-poetante del nihilx è già "poiesix senzAPErché’" al di là’senza’epistéme della metafisica nihilx. L’’oltrenihil della poiesix vi è esserne l’essere dell’evento: l’essere nulla.
Si è già l’essere è esserSi del nulla. È evento dell’essere SENTIERO DELL'eveNTO: l’essere è panulla verità dell’essere«EventO Panulla» già’esserci senzaperché dell’essere grazie a Platone : l’essere si oppone al nulla sin tanto che esso è[4]. Con queste ultime parole l’ambiguità è già divenuta fatale e con ciò il senso dell’essere è tramontato. In sostanza, con questa caratterizzazione temporale - sin tanto che esso è – si ha il tramonto della verità dell’essere, ossia della sua necessità (a-temporale): l’essere è certamente, ma solo quando è; il nulla non è, ma solo quando non è. Tutto questo lo troviamo esplicitato in modo rigoroso nel Liber de Interpretatione di Aristotele (19a 23-27). La differenza che si manifesta sta tra la necessità che l’essere sia, quando è, e la necessità simpliciter che l’essere sia. Il passaggio dalla seconda necessità alla prima comporta che: «"l’essere che non è" quando non è, non è altro che l’essere fatto identico al nulla, "l’essere che è nulla", il positivo che è negativo. "L’essere non è" significa precisamente che "l’essere è il nulla", che "il positivo è il negativo"»[5]. Con questo pensare il tempo in cui l’essere è il nulla significa negare simpliciter la verità dell’essere, che appunto nega che vi sia un tempo in cui l’essere sia il nulla, il positivo sia il negativo. Ma la verità dell’essere, e?´st? ?a`? e?~?a?, l’essere è, dice che l’essere che è non è il nulla, in quel "è" è già incluso il suo non essere il suo opposto, il suo non essere il negativo. Il travisamento del senso dell’essere sta tutto in questo credere che vi sia un tempo in cui il positivo sia il negativo: questa la follia dell’Occidente. L’errore sta nell’acconsentimento che l’essere sia nel tempo: divenga[6]. Dei due sentieri indicati da Parmenide, quello in cui l’essere è ed è impossibile che l’essere sia il non essere (il sentiero del giorno) e quello in cui l’essere è il non essere (il sentiero della notte), ebbene di questi due sentieri l’occidente ha percorso quello della notte, ponendo l’essere nel tempo, in cui a volte è e a volte non è.
Se però andiamo più in profondità notiamo che Parmenide è sia il primo ad annunciare la verità intramontabile dell’essere sia il primo responsabile del tramonto dell’essere. Infatti per Parmenide l’essere non è le differenze che si presentano nell’apparire del mondo, le molteplici determinazioni che si manifestano sono soltanto dei nomi, e quindi non sono l’essere: il rosso, la casa, l’albero poiché non significano "essere", in base alla opposizione tra il positivo e il negativo, queste determinazioni sono "nulla". L’essere parmenideo per Severino è l’essere trascendente[7], che nega la molteplicità reale, la quale soggetta al divenire è nulla. Successivamente l’elaborazione platonica della differenza tra il non-essere come contrario (e??a?t???) e il non-essere come altro (e?´te???) dall’essere è stata per il pensiero occidentale tanto più fatale quanto essenziale. Perché essa porta le differenze nell’essere, ma continua a lasciarle nel tempo, da cui prende inizio la ricerca di quell’essere che è fuori del tempo: gli immutabili della metafisica. Con Platone le differenze vengono ricondotte nell’essere, perché se le singole determinazioni (rosso, casa, albero ecc.) non significano essere, dall’altra non significano neanche nulla; se quindi non significano nulla, allora di esse si deve predicare l’essere, il quale è un respinger via il nulla. In tal modo l’essere diventa predicato di ciò che gli è diverso (e?´te???), non di ciò che gli è opposto (e??a?t???). Perciò con Platone dire che il "non-essere è" non significa più che il negativo è il positivo. L’essere parmenideo diventa il predicato di tutte le determinazioni[8]. Ma riconducendo le differenze (determinazioni) nell’essere, l’essere viene interpretato come ciò che può, anzi deve, a volte non essere. L’irruzione delle differenze del molteplice nell’area dell’essere porta ad interpretare l’intero del positivo sulla traccia del positivo empirico, in conseguenza dell’idea che l’essere è quando è e non è quando non è, vede l’essere come un oscillare tra la positività e la negatività: il divenire. Sono quindi le determinazioni molteplici che indicano adesso il senso dell’essere. Da ciò segue che dopo Parmenide tutta la metafisica occidentale diventerà una fisica[9].
Il nichilismo è il tratto essenziale della storia dell’Occidente[10]. È certamente un tratto nascosto, nel senso che il pensiero occidentale apertamente non ammette il suo essere nichilistico, ma solo a livello inconscio. Eppure se ci inoltriamo nelle trame del suo pensiero cogliamo tale carattere. Non a caso l’essenza della libertà, di quel concetto così caratterizzante l’Occidente appartiene all’essenza del nichilismo[11]. Ma quando si manifestano i tratti essenziali del nichilismo?
Come abbiamo già accennato essi si manifestano nella metafisica greca, e in particolare quando il concetto di cosa si identifica con quello di ente. Il pensiero greco in particolare identifica il t? t? con t?` ??´?; con il primo termine il pensiero greco nomina il qualcosa (aliquid), con il secondo nomina l’ente. La cosa più interessante è che il qualcosa viene identificato con l’ente quando è sia inteso come soggetto della contrapposizione tra l’essere e il niente, diventando l’opposto del niente, sia come ciò che si mantiene legato sia all’essere che al niente. Insomma, da una parte l’ente è pensato come ciò che si oppone al niente, dall’altra come ciò che è insieme non-niente e niente. Mentre nel linguaggio premetafisico tale contrapposizione rimane celata, con la metafisica tale contrapposizione è perfettamente delineata, e diventa lo sfondo dell’Occidente. Nella dimensione mitica infatti tale contrapposizione non è presente, esiste certamente la differenza tra mondo dei vivi e quello dei morti, ma quest’ultimo non è inteso come dimensione del niente, del totale congedo, anzi le cose di tale mondo sono estremamente incombenti e richiedono un’estrema cura.
Con la metafisica di Platone si ha l’equiparazione della cosa all’ente, perché si ha la contrapposizione della cosa al niente, al µ?` ??´?: dire che il qualcosa, t? t?, si contrappone al niente, µ?` ??´?, per Platone è lo stesso dell’ente, t?` ??´?, che si contrappone al ni-ente, µ?` ??´?. Se poi verifichiamo cosa è per Platone l’ente troviamo lo stretto rapporto tra ente e cosa: l’ente è "ciò" che non è un niente, il "ciò" è il t?, il qualcosa. Ora, nel pensiero di Platone la cosa è certamente legata all’essere, ossia la cosa "è", ma tale legame non è eterno, non è quindi necessario. La cosa si trova fra l’essere e il niente, contesa da entrambi. La contesa in greco si dice e?´???, mentre ????e?? è il contendere dei contendenti, il dibattersi del conteso tra i contendenti. Platone può allora dire che la cosa è e?paµf?te???e??, il dibattersi tra l’uno e l’altro, tra l’essere e il niente[12]. Ma la sfera di questo dibattersi per Platone non è oggetto dell’e?p?st?µ?, la quale ha come oggetto l’ente eterno ed immutabile, l’ente che sempre "è" senza alcuna contesa; la dimensione della contesa tra essere e niente appartiene alla d??a, all’opinione, la quale non si basa su una verità ferma e necessaria, ma sulla contingenza, sull’indecisione tra essere e niente, anzi proprio perché l’ente contingente è indeciso, è compagno di entrambi[13]. La sfera dell’opinione è il divenire, in cui l’ente nasce (entra nell’essere) e perisce (ritorna nel nulla). Da ciò si deduce che con l’e?paµf?te???e?? non si apre la sfera dell’ente in quanto ente, ma dell’ente in quanto diveniente[14]. Ma, a sua volta, questo comporta che quando Platone parla dell’ente immutabile, egli non lo intende tale in quanto ente, ma in quanto un certo ente, l’idea; la quale in primo luogo non è un ente sensibile, ossia soggetto al processo del divenire. L’ente in quanto ente non è immutabile per definizione, perché altrimenti ogni ente sarebbe immutabile ed eterno. Il che ci fa dire che l’ente in quanto ente è indeciso tra l’essere e il niente, la sua dimensione è l’e?paµf?te???e??, conteso tra l’uno e l’altro. Se da una parte per Platone la cosa non è un niente, dall’altra può non essere, ossia essere un niente. Grazie a Platone la metafisica si fonda inconsciamente sul nichilismo, su quel pensiero che consciamente nega che la cosa sia niente, ma inconsciamente identifica la cosa col niente. Il carattere inconscio del nichilismo si evidenzia dal fatto che, per Platone, se da una parte una cosa che "è niente" è inconoscibile, si pone comunque che una cosa possa non essere, in sostanza non avverte la necessità che l’impossibilità di conoscere una cosa nientificata sia innanzitutto dovuta all’impossibilità che una cosa (un non-niente) non sia. È proprio nel non cogliere questa necessità che il pensiero occidentale si erige nella sua essenza. L’ente si trova in una dimensione indecisa, tra l’essere e il niente, in un’oscillazione che non ha fine. Non a caso per Platone l’ente è immutabile non in quanto ente, ma in quanto idea; ciò vuol dire che l’ente in quanto ente (non semplicemente l’ente diveniente) è indeciso (e?paµf?te???e??) tra l’essere e il niente. Se però ci chiediamo cosa intenda Platone come anche Aristotele per divenire, constatiamo che esso non è interpretato come passaggio dal puro essere al puro niente, al niente assoluto. Ad esempio, nella costruzione di una casa, l’ente particolare che sarà quella casa così fatta non è ancora, ma i materiali che la compongono erano prima che la casa venisse costruita. Ciò che esce e ritorna nel nulla non è tutto l’ente ma la sua unità, il suo essere un unicum. Questo è certamente in contrasto con il principio della sostanza di Aristotele, per cui è la sostanza, appunto l’unità di ogni ente ad essere immutabile, mentre sono i suoi attributi a mutare. Eppure l’unità della casa, di una casa, prima che venga costruita non è. Se andiamo più in profondità si constata che anche i materiali di un’unità sono a loro volta prodotti o per natura o grazie all’operato dell’uomo, il che ci porta a dire che anche la materia esce e ritorna nel nulla. In sostanza Aristotele, pur ammettendo che ogni cosa è un non-niente, asserisce anche che ogni cosa oscilla tra l’essere e il niente; se quindi ammette che la cosa "è", è inseparabile dal suo essere, dall’altra uscendo e ritornando nel niente, ciò che in realtà subisce tale processo è il suo essere, il suo non essere un niente: il fondamento inconscio dell’Occidente è quello di identificare il non-niente col niente, il positivo col negativo. È questa la follia che l’Occidente non vede, ma ha sempre perseguito: dire che la cosa è un ente, ossia è legata all’essere e che la cosa come tale esce e torna nel niente, significa dire che l’essere è niente, appunto il positivo è il negativo, che è di per se stesso impossibile, perché identifica gli opposti, ciò che per essenza non possono mai identificarsi. Ecco l’essenza del nichilismo: essa non sta nella testimonianza dell’estrema contrapposizione dell’ente e del niente, ma nel non tenersi fermo ad essa, dissolvendo tale contrapposizione nel proprio inconscio[15]. La contrapposizione autentica dell’ente e del niente è possibile solo se l’ente viene considerato come una totalità, e, a sua volta, tale totalità appare solo se in tale apparire non vi è nulla al di fuori di essa, solo se tutto l’ente è eternamente separato dal niente. Solo quando il niente è inteso come contrapposizione ad una "certa parte" dell’ente, e non come nulla assoluto, il nulla si pone come un t?, appartenendo esso stesso alla totalità dell’ente. Ponendo la possibilità di un niente relativo che non è l’opposto dell’ente, ma l’altro dell’ente, anch’esso quindi un ente, Platone fonda i presupposti del pensiero nichilistico. Infatti, da Plotino ad Heidegger l’Occidente userà il concetto di nulla relativo per individuare la differenza tra essere ed ente: l’essere è il nulla, perché è l’altro dell’ente.
Da questi risultati si ottiene che l’ente pensato nel suo essere frapposto tra l’essere e il niente (e?paµf?te???e??) è il presupposto della libertà. In greco libertà si dice e??e??e??a, composto dalla parola ???, che significa sciolgo, libero. La parola libertà originariamente non è semplicemente la libertà del mortale o degli dei, ma la libertà dell’ente in quanto ente, il suo essere sciolto dai legami, il suo essere appunto libero[16]. Ora il concetto di libertà presuppone l’assenza di qualsiasi necessità, che come tale vincola l’ente; in sostanza la libertà presuppone la contingenza dell’ente. Ma proprio l’ e?paµf?te???e?? dell’ente mostra nel modo più netto questo essere liberi da qualsiasi legame: in quanto conteso dall’essere e dal nulla, l’ente è libero da qualsiasi legame: l’ente può essere come anche non essere. Sarebbe interessante evidenziare come questo concetto di libertà quale ciò che si oppone alla necessità, si sia sviluppato in tutti gli ambiti della storia dell’Occidente, pensiamo solo alla sfida del mortale contro i lacci degli dei, alla trasgressione di Adamo al divieto divino. Certamente questa tendenza a liberarsi della dimensione soprasensibile per il mortale è destinata al fallimento. Eppure se pensiamo alla dimensione dell’ente lo scioglimento è possibile, perché, come si è visto, l’ente in quanto ente si fonda sul concetto di libertà (e?paµf?te???e??). «Ci si libera da qualcosa perché la cosa stessa, innanzitutto, è un liberarsi»[17]. Tale libertà è libertà infinita, perché percorre la distanza tra gli estremamente opposti (essere e nulla), liberandosi in modo estremo dall’uno e dall’altro. È con l’instaurarsi di questo frammezzo che inizia la storia dell’Occidente come storia della libertà. In questa dimensione la schiavitù è interpretata come il legame che trattiene l’ente nell’essere o nel niente, ma è un legame provvisorio. La schiavitù trova quindi fondamento nella libertà, poiché è l’indugiare dell’ente in uno dei due estremi della sua libera oscillazione.
La libertà così intesa (e?paµf?te???e??) è a fondamento del binomio occidentale di creazione-distruzione. La creazione infatti è la libertà dal niente, mentre la distruzione è la libertà dall’essere.
Possiamo con ciò dire che «il demiurgo platonico, la volontà dei mortali, il dio creatore del cristianesimo, la macchina, le rivoluzioni della borghesia e del proletariato, la civiltà della tecnica non aggiungono nulla alla pura essenza della libertà, ma costituiscono i vari modi in cui, nella storia occidentale, la metafisica si è proposta di guidare la libertà dell’ente»[18]. Con la metafisica la persuasione che l’ente in quanto ente sia niente sopraggiunge insieme alla persuasione che l’ente è eterno, in quanto è un certo ente, privilegiato, "divino". Si può anzi dire che l’eterno è la condizione della libertà del perituro, ma anche il contrario, ossia che la persuasione della nientità dell’ente è il fondamento dell’affermazione dell’eterno. Questo reciproco rispecchiarsi è possibile solo con l’e?paµf?te???e?? dell’ente. Questo significa anche che il pensiero metafisico, restando fermo sul fondamento della nientità dell’ente, scorge il naufragio di ogni affermazione dell’eterno, nel senso che l’affermazione dell’eternità è voluta dal mortale come legame di quel particolare ente all’essere, ma esso naufraga perché si contrappone alla libertà dell’ente in quanto ente dall’essere. Proprio per l’evidenza di tale libertà gli eterni, nella storia dell’Occidente, sono destinati al tramonto: qui l’essenza dell’età della tecnica. Il tramonto dell’eterno sta anche nel fatto che l’ente eterno essendo il senso del tutto, quindi anche degli enti divenienti, quelli cioè che sono niente (in quanto divengono niente), contraddice se stesso. Se cioè l’ente eterno è eternamente legato all’essere non può raccogliere l’ente che è libero di non essere. L’evidenza della libertà dell’ente richiede quindi il tramonto degli eterni.
È il senso della cosa che porta alla forma estrema della volontà di potenza. Essa si esprime come volontà di guidare l’oscillazione tra l’essere e il niente, ossia sulla volontà di separare l’ente dal suo "è", rendendolo disponibile all’essere ed al niente. È questa disponibilità che la volontà vuole. Allo stesso modo il disponibile, l’ente come e?paµf?te???e??, è anche una minaccia per la volontà, perché, progettando di dominarlo, può anche fallire nel suo intento. La volontà vuole che l’ente sia contingente, ma volendo questo implica anche l’insicurezza del suo dominio.
La storia della metafisica può essere intesa come il progressivo liberarsi degli immutabili, il suo allontanarsi dalla verità ferma e stabile: l’e?p?st?µ?. È l’evidenza della libertà dell’ente ad esigere la distruzione di ogni sapere incontrovertibile[19]. Questa progressiva emancipazione del divenire dagli immutabili comporta anche che l’evidenza della libertà dell’ente è per la metafisica una forma di sapere incontrovertibile, ossia epistemica. Quindi l’e?p?st?µ? unisce in sé due tratti contrastanti: da una parte pensa l’ente come oscillazione tra l’essere e il nulla, dall’altra vuole determinare in modo incontrovertibile il senso dell’ente, in quanto ente. Ma la seconda forma di e?p?st?µ? rende impossibile la prima forma di e?p?st?µ?, come anche il contrario. Se infatti l’ente è e?paµf?te???e??, qualsiasi determinazione incontrovertibile dell’ente è negata. Se l’ente esce e ritorna nel niente non può essere oggetto di una verità epistemica, in cui ogni ente ha senso rispetto al tutto dell’ente, indissolubilmente legato ad esso[20]. L’ente che esce dal nulla è novità assoluta che, appunto, mette in questione ogni verità posseduta. L’e?p?st?µ?, allora, può essere solo verità storica, espressione del senso secondo il quale l’ente si crea di volta in volta nel suo divenire. Diventando verità storica, l’e?p?st?µ? diventa scienza epistemica e sperimentale, passando da scienza del tutto a scienza della parte. Il culmine di questo processo si ha nell’epoca della tecnica, nell’epoca dell’ipotesi e della specializzazione scientifica. Nella forma estrema del nichilismo – la coerenza del nichilismo – l’ente è ad un tempo diverso dal niente e uguale al niente. Tali contrapposizioni non stanno sullo stesso piano: la persuasione che l’ente sia niente è l’inconscio dell’Occidente che non può raggiungere, perché questo comporterebbe l’identità degli opposti, cosa che sia logicamente sia fenomenicamente[21] è impossibile; la persuasione che l’ente sia diverso dal niente è l’inconscio dell’inconscio dell’Occidente che esso può raggiungere, appunto perché afferma l’identità dell’ente con se stesso che in quanto tale nega il suo essere identico al suo opposto[22].
Il nichilismo nella sua coerenza diventa negazione incontrovertibile dell’incontrovertibile.
Nell’e?paµf?te???e?? l’ente non è solo libero dall’essere e dal niente, ma anche il modo in cui diviene è libero, in sostanza l’e?paµf?te???e?? è la contingenza assoluta dell’ente[23]. La storia è libertà, perché avrebbe potuto realizzarsi in modo del tutto diverso da come in effetti si è realizzata. A tale libertà appartiene il libero arbitrio dell’uomo.
Nel pensiero greco la libertà dell’ente viene fondata in modo rigoroso dalla dottrina aristotelica dell’essere, intesa come passaggio dalla potenza all’atto. Tale passaggio per Aristotele non è necessario ma contingente, ed indica l’essenza del divenire: che un ente in potenza divenga atto, ossia "è", non è necessario ma contingente. Nella prospettiva della contingenza un ente ha la possibilità di non essere come anche di essere solo fin tanto non è ancora, quando invece entra nell’apparire quest’ente non ha più la possibilità di essere, ma solo di uscire dall’apparire[24]. A rigor di termine un mondo che ancora non esiste ma che potrebbe esistere non è un contenuto dell’apparire, perché appunto non appare nell’attualità. Si coglie insomma che dalla prospettiva del nichilismo non vi è connessione alcuna tra ciò che appare e ciò che non appare. In tal senso in termini aristotelici la capacità di un ente di passare all’atto non appare prima che l’atto si compia, solo quando appare si coglie la sua capacità (potenza) di apparire.
Nel linguaggio nichilistico «l’azione è la volontà di potenza che fa passare la cosa dal non essere all’essere; l’essere, in quanto azione nominata dal verbo, è il contenuto della forma originaria della volontà di potenza, che, proprio perché vuole l’e?paµf?te???e?? della cosa, vuole l’«essere» come lo stare in equilibrio sulla cosa avendo la possibilità di cadere da essa»[25]. Nel linguaggio del destino tale caduta (pt?~s??) non riguarda l’essere ma l’apparire dell’ente.
La coerenza del nichilismo perfettamente compiuta nella nostra epoca esige l’affermazione del nesso necessario tra la parte e il tutto diveniente. Ma la necessità di questo nesso è la necessità che l’ente in quanto tale sia libertà (e?paµf?te???e??), ossia sia diveniente e quindi storico. Da questa prospettiva nulla è al di fuori del processo storico[26]. La storia diventa il tutto diveniente a cui, dopo la distruzione di tutti gli immutabili, tutto deve sottostare. La dialettica diventa l’unico metodo adeguato alla realtà diveniente, in cui l’ente si mostra in termini diacronici (l’uscire dal nulla, lo stare temporaneamente nell’essere e il ritornare nel nulla). Il divenire esige che il tutto sia diveniente[27]. Il carattere diacronico del divenire è compiutamente realizzato dall’età della tecnica, perché ne accentua il suo carattere ipotetico, ossia la nientificazione dell’ente. Con la tecnica il dominio nichilistico dell’ente si porta al suo compimento. Con esso si ha il tramonto di qualsiasi nesso sincronico: tra gli enti ciò che domina è solo il nesso diacronico.
Nell’e?p?st?µ?, nel sapere assoluto e incontrovertibile, ogni nesso necessario è un nesso sincronico, «perché l’esistenza stessa del nesso necessario in quanto tale rende "sincronico" il tutto e rende ogni parte necessariamente connessa alla sincronia totale»[28]. Se la volontà di potenza si pone come e?p?st?µ? lega necessariamente a sé il tutto e tra loro le parti del tutto. Se poi tale volontà di potenza si propone di controllare il divenire (nichilistico) è inevitabile che il tutto divenga una totalità organica, e quindi sincronica. Ma l’evidenza nientificante del divenire vanifica ogni tentativo di un’e?p?st?µ? del tutto, vanifica il carattere sincronico del tutto, portando all’unico carattere che il divenire può assumere, quello diacronico, che rappresenta la disorganicità del tutto. Se quindi il sincronico indica l’organico, il diacronico mostra il disorganico del tutto, il suo essere ipotesi. L’ e?p?st?µ? è destinata al tramonto, perché un’e?p?st?µ? del divenire nichilistico si contraddice da sé. Il nichilismo impedisce l’e?p?st?µ? perché rende disorganico l’organico. Se infatti un ente esce dal niente non può avere nessun rapporto necessario con l’ente preesistente, ogni ente diveniente è quindi isolato sia rispetto al tutto sia rispetto ad ogni altro ente, rendendo impossibile qualsiasi forma di sapere epistemico. A fondamento del nichilismo c’è l’isolamento dell’ente dal tutto, ossia la negazione del nesso necessario sincronico tra la parte e il tutto, portando nell’isolamento e nella conseguente contingenza il tutto diveniente[29].
Il dominio della t???? presuppone tale isolamento dell’ente. Anzi, possiamo dire che qualsiasi dominio presuppone l’isolamento dell’ente, il suo uscire e ritornare nel niente, libero di essere come di non essere. Ecco allora che l’essenza della volontà di potenza è la volontà di libertà, la volontà che l’ente sia disponibile sia all’essere che al niente (e?paµf?te???e??).
È interessante, a questo punto, mostrare il rapporto linguistico che vi è tra "dominio" e "isolamento". Il dominio è dominus che è t?` da?µ?????, il «dèmone», il separante (da?µ??, «dèmone», da??µa?, «separato»). Quindi il dominio che si impadronisce delle cose modificandole è possibile solo sul fondamento del dominio che si impadronisce delle cose isolandole dal tutto[30]. Il dominio così inteso non nega il divenire, ma lo guida, proprio perché esso si fonda sul presupposto dell’assenza di qualsiasi legame necessario. Così inteso tale dominio può dare uno scopo all’ente, scopo non assoluto ma ipotetico. Lo scopo che noi attribuiamo all’ente presuppone il suo essere isolato dal tutto, libero appunto per lo scopo. In più nell’ambito della specializzazione scientifica non vi può essere uno scopo che unifichi tutto il campo scientifico, perché, di nuovo, questo presupporrebbe dare un nesso necessario a ogni ente, considerandolo come un tutto organico. L’unità dello scopo si trasforma in una molteplicità di scopi, in una parzialità sempre maggiore del tutto. La scienza odierna guida il divenire solo se si dà una molteplicità di scopi; solo quindi se la scienza diventa sempre più specializzata domina l’ente nella sua totalità: ecco la coerenza del nichilismo. La molteplicità dello scopo indica la parzialità di ogni scopo, ossia il suo essere, una volta realizzato, l’inizio di un altro scopo. Questo processo non porta all’esaurimento degli scopi ma al suo infinito moltiplicarsi. È questo il modo in cui la tecnica si è sviluppata e sta affermando il suo completo dominio su tutto l’Occidente, e quindi su l’intero pianeta.




1.2 Téchne, il culmine del nichilismo.

La tecnica odierna ha decretato il suo dominio su tutto il pianeta[31]. Per uno stato moderno, come per un’azienda, essere potenti significa avere un apparato tecnico enormemente sviluppato. Non vi è campo umano dove la tecnica sia assente, dall’elettronica all’agricoltura la tecnica opera incontrastata il suo dominio, decretando ad un tempo la totale dipendenza dell’uomo nei suoi confronti. Se infatti oggi la tecnica interrompesse la sua produzione la nostra società cadrebbe a pezzi come un castello di sabbia.
Ora, per mostrare quali sono i tratti essenziali che Severino attribuisce alla tecnica dobbiamo sviluppare una serie di concetti che formano un tutt’uno con la tecnica. Tali concetti formano una costellazione che girano attorno alla struttura della tecnica, rispecchiandosi in essa, e trovando nel nichilismo il loro minimo comun denominatore. I concetti su menzionati sono: la violenza, l’angoscia, la previsione, la decisione, la volontà di potenza e il rischio. Possiamo in tal modo tracciare uno schema ipotetico che indica tale rapporto:
Nichilismo
?
Violenza, angoscia, previsione, decisione, volontà di potenza, rischio
?
Tecnica

Tali concetti saranno esposti rimanendo fedeli all’interpretazione nichilistica dell’Occidente, indicata nel paragrafo precedente.
Nell’esposizione del concetto di violenza bisogna innanzitutto dire che essa non è tale se compie qualcosa di possibile: se uccido una persona io non compio una violenza, perché la persona è mortale, quindi non farei altro che assecondare la sua natura di mortale. Se la violenza esiste, allora la violenza non può essere la volontà che vuole il possibile, ma deve essere la volontà che vuole l’impossibile[32]. La violenza vuole oltrepassare l’impossibile, ossia la necessità. Eppure, per Severino l’uomo non sa cosa sia la necessità, in quanto la interpreta come contingente. È questa volontà interpretante che trasforma il necessario e impossibile in contingente e possibile. Così la volontà che vuole l’impossibile interpretandolo come possibile, in realtà, ottiene niente.
La struttura del divenire implica sia l’identificazione di una cosa che diviene un’altra, sia la loro differenziazione. Se due enti A e B divenienti non si identificassero non potrebbe divenire, ossia passare da A a B, se però non si differenziassero non diverrebbero, perché sarebbero sempre identici: il divenire è diversificazione dell’identico (l’identico che diventa diverso da sé) e identificazione del diverso (il diverso dal proprio altro, che si identifica al proprio altro)[33]. Eppure il divenire inteso come identità e diversità è impossibile, contraddittorio, assurdo. Proprio perché è impossibile non appare: le variazioni di contenuto che appaiono non sono la diversificazione dell’identico e l’identificazione del diverso, ma il comparire e lo sparire degli identici[34].
Proviamo a chiarire questo concetto con un esempio che Severino usa frequentemente: quando la legna brucia e appare la cenere non appare la legna che diventa cenere o l’essere cenere da parte della legna, ma appare prima quell’identico che è la legna, poi quell’altro identico che è la legna che brucia e infine quell’altro identico che è la cenere. L’identità della legna e della cenere non appare, e non appare nemmeno l’identità come risultato di un processo, quindi non appare nemmeno questo processo, ossia il divenire.
Ora, se la violenza è la volontà che vuole l’impossibile, e se la volontà è un volere che qualcosa divenga altro da sé (impossibile), la volontà è, in quanto tale, il volere l’impossibile, cioè la volontà è violenza[35]. Ma anche la volontà salvifica è una forma nascosta di violenza. Ed è violenta perché la salvezza vuole trasformare il mondo, ossia vuole l’impossibile. La salvezza può salvare solo se è libera dalla volontà, ossia dall’isolamento, dal divenire nichilistico. Il che non significa che nella regione dell’essere non esista il divenire. Se cioè il divenire è inteso come l’apparire e lo scomparire degli eterni, allora il divenire è possibile, anzi è necessario, come ogni altro ente.
Il divenire nichilistico, ossia l’uscire e il ritornare nel nulla, implica una diversità infinita tra l’ente e il nulla, perché infinita è la distanza tra l’essere e il nulla, altrettanto infinita è la violenza che vuole realizzare tale identificazione. La volontà che vuole far diventare qualcosa altro da sé è volontà di potenza, tale volontà è quella che denota la civiltà occidentale, perfino quando pone l’importanza della salvezza, della tolleranza, dell’amore, anche qui si tratta di violenza infinita. Per quanto amore e odio, tolleranza e intolleranza siano diversi, hanno entrambi lo stesso fondamento: violenza infinita.
Se da una parte il diventare altro di un ente è impossibile, dall’altra il diventare altro, come la volontà di potenza o l’impossibile sono enti, e quindi anch’essi eterni. Con il divenire appaiono gli eterni spettacoli della violenza, ma tale volontà non appare come qualcosa di ottenuto da sé, è il destino che invia gli eterni che corrispondono e corrispondono alla violenza della volontà[36].
L’uomo occidentale ha da sempre ricercato la salvezza: dal mito, religione, scienza e oggi la tecnica. Ciò che vuole la salvezza è evitare la propria distruzione. Dalla fede nella distruzione scaturisce l’angoscia. Anzi la stessa forma che l’angoscia storicamente assume è determinata dalla forma della distruzione. Ciò che la civiltà occidentale intende per distruzione è l’annullamento[37]. L’angoscia ha quindi di fronte a sé il niente. Il pensiero occidentale greco ponendo l’infinita separazione tra essere e niente porta alla luce la forma tipica dell’angoscia: l’angoscia per il proprio annullamento[38].
L’Occidente ha evocato il niente, possiamo anzi dire che l’Occidente è l’evocazione del niente; mentre Dio e la Tecnica sono i due modi fondamentali in cui esso crede di salvarsi dal niente: l’Occidente ha, per così dire, prodotto sia la malattia sia il farmaco.
Se, infatti, la tecnica oggi rappresenta la forma più potente per salvarsi dall’annientamento, allo stesso tempo è l’apparato che può annientare l’intera razza umana[39].
Si teme la propria distruzione, perché si crede che il mondo cambi in continuazione: la distruzione sopraggiunge con i cambiamenti del mondo[40]. Ma questi infiniti cambiamenti del mondo sono una fede, ossia l’interpretazi

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