venerdì 8 febbraio 2019

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chorabpheranx “spazialità caosmica” creatorexpheranx chorabpheranx creatoreventuax’aldilà” (paradoxabpheranx) è “fuori di sé”, è “invasato”, e quindi inconsapevole: non sa dar ragione di ciò che fa, né sa insegnare ad altri ciò che fa.
Il poeta è poeta per “sorte divina”, non per virtù di conoscenza.
Più precise e determinate sono le concezioni dell’arte che esprime nel libro decimo della Repubblica. L’arte, in tutte le sue espressioni (cioè sia come poesia, sia come arte pittorica e plastica), è, dal punto di vista ontologico, una “mimesi”, una “imitazione” di eventi sensibili. Ora, noi sappiamo che le cose sensibili sono, dal punto di vista ontologico, un’”immagine” dell’eterno “paradigma” dell’Idea, e perciò distano dal vero nella misura in cui la copia dista dall’originale. Ebbene, se l’arte, a sua volta, è imitazione delle cose sensibili, allora ne consegue che essa viene a essere “una imitazione di una imitazione”, una copia che riproduce una copia, e quindi essa rimane “tre volte lontana dalla verità”.
Dunque, l’arte figurativa imita la mera parvenza e così i poeti parlano senza sapere e senza conoscere ciò di cui parlano, e il loro parlare è, dal punto di vista del vero, un gioco, uno scherzo. Di conseguenza è convinto che l’arte si rivolga non alla parte migliore, ma alla parte meno nobile della nostra anima. L’arte è pertanto corruttrice e va in larga misura bandita, o addirittura eliminata dallo Stato perfetto, a meno che essa non si sottometta alle leggi del bene e del vero.
– si noti – non negò l’esistenza e il potere dell’arte, ma negò che l’arte potesse valere solo per se stessa: l’arte o serve il vero o serve il falso e tertium non datur. Abbandonata a se stessa, l’arte serve il falso. Dunque, se vuole “salvarsi”, deve assoggettarsi alla filosofia, che sola è capace di raggiungere il vero e, allo stesso modo, il poeta deve sottostare alle regole del filosofo. [pag.178]
◗ La retorica come mistificazione del vero
Nell’antichità classica la retorica aveva un’importanza grandissima, come abbiamo visto trattando dei sofisti. Essa non era, come per noi moderni, qualcosa che ha a che fare con l’artificio letterario e che quindi si colloca ai margini della vita pratica, ma era forza civile e politica di primissimo ordine.
Secondo la retorica (l’arte dei politici ateniesi e dei loro maestri) è mera piaggeria, è lusinga, è adulazione, è contraffazione del vero. Come l’arte pretende di ritrarre e di imitare tutte le cose senza averne vera conoscenza, così la retorica pretende di persuadere e di convincere tutti su tutto senza avere alcuna “conoscenza”. E come l’arte crea meri fantasmi, così la retorica crea vane persuasioni e illusorie credenze. Il retore è colui che, pur non sapendo, ha l’abilità, nei confronti dei più, di essere persuasivo più di chi veramente sa, giocando sui sentimenti e sulle passioni.
La retorica (come l’arte) si rivolge quindi alla parte peggiore dell’anima, alla parte credula e instabile. Pertanto il retore è lontano dal vero quanto l’artista e, anzi, ancora di più, perché volutamente dà ai fantasmi del vero le parvenze del vero e rivela quindi una malizia che l’artista non ha, o ha solo in parte.
E come alla poesia va sostituita la filosofia, così alla retorica va sostituita la “vera politica”, che coincide con la filosofia. Poeti e retori stanno al filosofo, così come le parvenze stanno alla realtà e come i fantasmi della verità stanno alla verità.
Questo aspro giudizio sulla retorica, pronunciato nel Gorgia, viene alquanto ammorbidito nel Fedro, dove si riconosce all’arte dei discorsi, ossia alla retorica, un diritto all’esistenza, a patto che essa si sottometta alla verità e alla filosofia. Solo conoscendo la natura delle cose, mediante la dialettica, e la natura dell’anima umana, alla quale sono diretti i discorsi, sarà possibile costruire una vera arte retorica, una vera arte di persuadere con i discorsi.
◗ L’amore platonico come via alogica all’assoluto
La tematica della bellezza non viene collegata da con la tematica dell’arte (la quale è imitazione di mera parvenza, e non rivelatrice dell’intellegibile bellezza), bensì con quella dell’eros e dell’amore, che viene inteso come forza mediatrice fra sensibile e soprasensibile, forza che dà ali ed eleva, attraverso i vari gradi della bellezza, alla metaempirica Bellezza in sé. E poiché il Bello, per i Greci, coincide col Bene, o è comunque un aspetto del Bene, così Eros è forza che eleva al Bene, e l’«erotica» si rivela come una via alogica che porta all’Assoluto.
Nel Simposio ci dà una splendida analisi di Amore: Amore non è né bello né buono, ma è sete di bellezza e di bontà. Amore non è quindi un dio (Dio è solo e sempre bello e buono), ma nemmeno un uomo. Non è mortale e neppure immortale: egli è uno di quegli esseri demoniaci “intermedi” fra uomo e Dio.
Amore è dunque filo-sofo, nel senso più pregnante del termine. La sophia, cioè la sapienza, [pag.179] è posseduta solo da Dio; l’ignoranza è propria di colui che è totalmente alieno da sapienza; la filosofia è propria, invece, di chi non è né ignorante né sapiente, non possiede il sapere ma vi aspira, è sempre in cerca, e ciò che trova gli sfugge e lo deve cercare oltre, appunto come fa l’amante.
Quello che gli uomini comunemente chiamano amore non è che una piccola parte del vero amore: amore è desiderio del bello, del bene, della sapienza, della felicità, dell’immortalità, dell’Assoluto. L’Amore ha molte vie che portano a vari gradi di bene (ogni forma di amore è desiderio di possedere il bene per sempre): ma vero amante è colui che le sa percorrere tutte fino in fondo, fino a raggiungere la suprema visione di ciò che è assolutamente bello.
Al più basso grado nella scala dell’amore è l’amore fisico, che è desiderio di possedere il corpo bello al fine di generare nel bello un altro corpo: e già questo amore fisico è desiderio di immortalità e di eternità, «perché la generazione, pur in mortale creatura, è perennità e immortalità».
Poi c’è il grado degli amanti, che sono fecondi non nei corpi ma nelle anime, che portano germi che nascono e crescono nella dimensione dello spirito.
E fra gli amanti nella dimensione dello spirito si trovano, via via sempre più in alto, gli amanti delle anime; gli amanti delle arti, gli amanti della giustizia e delle leggi, gli amanti delle pure scienze.
E, infine, al sommo della scala d’amore c’è la folgorante visione dell’Idea del Bello in sé, dell’Assoluto.
Nel Fedro, approfondisce ulteriormente il problema della natura sintetica e mediatrice dell’amore, ricollegandolo con la dottrina della reminiscenza. L’anima, come sappiamo, nella sua originaria vita al seguito degli dei, ha visto l’Iperuranio e le Idee; poi, perdendo le ali e precipitando nei corpi, ha tutto dimenticato. Ma, sia pure a fatica, filosofando, l’anima “ricorda” quelle cose che un tempo vide. Questo ricordo, nello specifico caso della Bellezza, avviene in un modo del tutto particolare, perché sola fra tutte le altre Idee ha avuto la sorte privilegiata di essere «straordinariamente evidente e straordinariamente amabile». Questo emergere dell’ideale Bellezza nel bello sensibile infiamma l’anima, che è presa dal desiderio di levarsi a volo, per ritornare nel luogo da dove è discesa. E questo desiderio è appunto Eros, che, con l’anelito al soprasensibile, fa rispuntare all’anima le sue antiche ali e la eleva.
L’amore (“l’amore platonico”) è nostalgia dell’Assoluto, trascendente tensione al metaempirico, forza che ci spinge a ritornare all’originario nostro essere-presso-gli-dei.[pag.181]
  1. La concezione dell’uomo
◗ Concezione dualistica dell’uomo
Abbiamo in precedenza spiegato come il rapporto fra le Idee e le cose non sia “dualistico” nel senso usualmente inteso, dato che le Idee sono la “vera causa” delle cose. è dualistica invece (in certi dialoghi in senso totale e radicale) la concezione platonica dei rapporti tra anima e corpo. Si introduce, infatti, oltre alla componente metafisica, la componente religiosa dell’Orfismo, la quale trasforma la distinzione fra anima (soprasensibile) e corpo (sensibile) in una opposizione. Per questo motivo, il corpo è inteso non tanto come il ricettacolo dell’anima, che a essa deve la vita e le sue capacità (e quindi come uno strumento a servizio dell’anima quale lo intendeva Socrate), quanto piuttosto come “tomba” e “carcere” dell’anima, ossia come luogo di espiazione dell’anima.
Finché abbiamo un corpo, dice , siamo “morti”, perché siamo fondamentalmente la nostra anima, e l’anima, finché è in un corpo, è come in una tomba, e quindi mortificata; il nostro morire (con il corpo) è vivere, perché, morendo il corpo, l’anima viene liberata dal carcere. Il corpo è radice di ogni male, è fonte di insani amori, passioni, inimicizie, discordie, ignoranza e follia: ed è appunto tutto questo che mortifica l’anima. Questa concezione negativa del corpo si attenua alquanto nelle ultime opere di , ma non scompare mai del tutto.
Detto questo, è peraltro necessario rilevare che l’etica platonica è solo in parte condizionata da questo esasperato dualismo; infatti i suoi teoremi e corollari di fondo poggiano sulla distinzione metafisica di anima (ente affine all’intellegibile) e corpo (ente sensibile), più che sulla contrapposizione dell’Orfismo di anima (demone) e corpo (tomba e carcere). Da quest’ultima derivano la formulazione estremistica e l’esasperazione paradossale di alcuni principi, i quali restano, in ogni caso, validi nel contesto platonico, anche sul puro piano ontologico. La “seconda navigazione” resta, in sostanza, il vero fondamento dell’etica platonica.
◗ Fuga dal corpo, fuga dal mondo
Precisato questo, esaminiamo subito i due paradossi più noti dell’etica platonica, che sono stati così spesso fraintesi, perché si è guardato più alla loro esteriore coloritura misteriosofica che non alla loro sostanza metafisica: alludiamo ai due paradossi della fuga dal corpo e della fuga dal mondo.
Il primo paradosso è sviluppato soprattutto nel Fedone.
L’anima deve cercare di fuggire il più possibile dal corpo, e perciò il vero filosofo desidera la morte e la vera filosofia è “esercizio di morte”. Il senso di questo paradosso è molto chiaro. La morte è un episodio che ontologicamente riguarda unicamente il corpo; essa non solo non danneggia l’anima, ma le arreca grande beneficio, permettendole di vivere una vita più vera, una vita tutta raccolta in se medesima, senza ostacoli e veli, e interamente congiunta con l’intellegibile. Questo significa che la morte del corpo dischiude la vera vita dell’anima. Pertanto il senso del paradosso non cambia rovesciandone la formulazione, anzi si specifica meglio: il filosofo è colui che desidera la vera vita (morte del corpo) e la filosofia è esercizio di vera vita, della vita nella pura dimensione dello spirito. La “fuga dal corpo” è il ritrovamento dello spirito.
Anche il significato del secondo paradosso, quello della “fuga dal mondo”, è chiaro.
Del resto, stesso ce lo svela nel modo più esplicito nel Teeteto, spiegandoci che fuggire [pag.182] dal mondo significa diventare virtuosi e cercare di assimilarci a Dio: «Il male non può perire, ché ha pur da esserci sempre qualcosa di opposto e contrario al bene; né può aver sede fra gli dei, ma deve di necessità aggirarsi su questa terra e intorno alla nostra natura mortale. Ecco perché anche ci conviene adoperarci di fuggire di qui al più presto per andare lassù. E questo fuggire è un assomigliarsi a Dio per quel che a uomo è possibile; e assomigliarsi a Dio è acquistar giustizia e santità e insieme sapienza».
Come si vede, i due paradossi hanno un significato identico: fuggire dal corpo vuol dire fuggire dal male del corpo mediante virtù e conoscenza; fuggire dal mondo vuol dire fuggire dal male del mondo, sempre mediante virtù e conoscenza; seguire virtù e conoscenza vuol dire farsi simile a Dio, che, come è detto nelle Leggi, è “misura” di tutte le cose.
◗La purificazione dell’anima
Già aveva posto nella “cura dell’anima” il supremo compito morale dell’uomo. ribadisce il comandamento socratico, ma vi aggiunge una mistica coloritura, precisando che “cura dell’anima” significa “purificazione dell’anima”. Questa purificazione si realizza quando l’anima, trascendendo i sensi, si impossessa del puro mondo dell’intellegibile e dello spirituale, a esso congiungendosi come a ciò che le è congenere e connaturale. Qui la purificazione, ben diversamente dalle cerimonie iniziatrici degli orfici, coincide con il processo di elevazione alla suprema conoscenza dell’intellegibile. Ed è proprio su questo valore di purificazione riconosciuto alla scienza e alla conoscenza (valore che in parte già gli antichi pitagorici, come abbiamo visto, avevano scoperto) che bisogna riflettere per comprendere le novità del “misticismo” platonico: esso non è estatica e alogica contemplazione, ma catartico sforzo di ricerca e di progressiva ascesa alla conoscenza. E, così, si capisce perfettamente come, per , il processo della conoscenza razionale sia a un tempo processo di “con-versione” morale: infatti, nella misura in cui il processo della conoscenza ci porta dal sensibile al soprasensibile, ci converte dall’uno all’altro mondo, ci porta dalla falsa alla vera dimensione dell’essere. Dunque, l’anima si cura, si purifica, si converte e si eleva “conoscendo”. E in ciò sta la vera virtù.
Questa tesi è esposta non solo nel Fedone, ma anche nei libri centrali della Repubblica: la dialettica è liberazione dai ceppi e dalle catene del sensibile, è “conversione” dal divenire all’essere, è iniziazione al Bene supremo. Pertanto, giustamente ha scritto a questo riguardo Werner : «Quando si ponga il problema, non già del fenomeno “conversione” come tale, ma dell’origine del concetto cristiano di conversione, si deve riconoscere in l’autore primo di questo concetto».
◗ L’immortalità dell’anima
Per era sufficiente comprendere che l’essenza dell’uomo è la sua anima (psyché), per fondare la nuova morale. Non era quindi necessario, a suo avviso, stabilire se l’anima sia o no immortale; la virtù ha il suo premio in se medesima, così come il vizio ha il castigo in se medesimo.
Invece per il problema dell’immortalità diventa essenziale: se, con la morte, l’uomo si dissolvesse totalmente nel nulla, la dottrina di non basterebbe per confutare i negatori di ogni principio morale (quali erano i sofisti politici, di cui è esempio paradigmatico Callicle, personaggio del Gorgia). Del resto, la scoperta della metafisica e l’accettazione del nucleo essenziale del messaggio orfico imponevano la questione dell’immortalità come fondamentale. Ben si spiega quindi che sia più volte tornato sull’argomento. In breve nel Menone, e poi nel Fedone con tre massicce prove, e poi ancora con ulteriori prove di rincalzo nella Repubblica e nel Fedro.
[pag.183]
La prova centrale del Fedone si può riassumere in breve nel modo seguente. L’anima umana – dice – è capace di conoscere le realtà immutabili ed eterne; ma, per poter cogliere queste, essa deve avere, necessariamente, una natura a loro affine: altrimenti quelle rimarrebbero al di fuori della sua capacità di comprensione; dunque, come quelle sono immutabili ed eterne, così anche l’anima deve essere immutabile ed eterna.
Nel Timeo precisa che le anime sono generate dal Demiurgo, con la stessa sostanza con cui è stata fatta l’anima del mondo (composta di “essenza”, di “identità” e di “diversità”); esse hanno dunque una nascita, ma, per preciso statuto divino, non sono soggette a morte, così come non è soggetto a morte tutto ciò che è direttamente prodotto dal Demiurgo.
Delle varie prove che fornisce, un punto resta acquisito: l’esistenza e l’immortalità dell’anima hanno senso unicamente se si ammette un essere soprasensibile, metaempirico, che chiama mondo delle Idee, ma che non significa, in ultima analisi, se non questo: l’anima è la dimensione intellegibile, metaempirica, incorruttibile, dell’uomo. Con l’uomo ha scoperto di essere a due dimensioni. E l’acquisizione sarà irreversibile, perché anche coloro che negheranno una delle due dimensioni daranno alla dimensione fisica, che crederanno di dover mantenere, un significato tutto diverso da quello che essa aveva quando l’altra era ignorata. L’anima, in cui (superando la visione omerica e presocratica e gli aspetti irrazionali della visione orfica) additava il “vero uomo”, identificandola con l’io consapevole, intelligente e morale, riceve con la sua adeguata fondazione ontologica e metafisica e una precisa collocazione nella visione generale della realtà.
◗ La metempsicosi
Per avere un’idea precisa del destino delle anime dopo la morte, occorre, in primo luogo, chiarire la concezione platonica della “metempsicosi”. Come sappiamo, la metempsicosi è la dottrina che indica la trasmigrazione dell’anima in vari corpi, quindi la “rinascita” della medesima in differenti forme di viventi. la riprende dagli orfici, ma la amplifica in vario modo presentandola fondamentalmente in due forme complementari.
La prima forma è quella che ci viene presentata nel modo più dettagliato nel Fedone. Qui si dice che le anime che hanno vissuto una vita eccessivamente legata ai corpi, alle passioni, agli amori e ai godimenti di essi non riescono a separarsi, con la morte, interamente dal corporeo, diventato a esse connaturato. Queste anime vagano per un certo tempo, per paura dell’Ade, attorno ai sepolcri come fantasmi, fino a che, attratte dal desiderio del corporeo, non si legano nuovamente a corpi e non solo di uomini ma anche di animali, a seconda della bassezza del tenore di vita morale tenuto nella precedente vita. Invece quelle anime che sono vissute secondo virtù, non quella filosofica, ma quella comune, si reincarneranno in animali mansueti e socievoli, o ancora in uomini probi.
«Ma – dice – alla stirpe degli dei non è concesso giungere a chi non abbia coltivato la filosofia e non se ne sia andato dal corpo completamente puro, ma è concesso solamente a colui che fu amante del sapere.»
Nella Repubblica parla di un secondo genere di reincarnazione dell’anima, notevolmente diverso da questo. Le anime sono in numero limitato, sicché, se tutte quante avessero, nell’aldilà, un premio o un castigo eterni, a un certo momento non ne resterebbero più sulla terra. Per questo evidente motivo ritiene che il premio e il castigo ultraterreni per una vita vissuta sulla terra debbano avere una durata limitata e un termine fisso. E poiché una vita terrena dura al massimo cento anni, , evidentemente influenzato dalla mistica pitagorica del numero dieci, ritiene che la vita ultraterrena debba avere una durata di dieci volte cento anni, ossia di mille anni (per le anime che hanno commesso crimini grandissimi e insanabili, la punizione continua anche oltre il millesimo anno). Trascorso questo ciclo, le anime devono ritornare a incarnarsi. Analoghe idee emergono dal mito del Fedro (sia pure con differenze nelle modalità e nei cicli di tempo) da cui risulta che le anime ciclicamente ricadono nei corpi [pag.184] e poi risalgono al cielo. Ci troviamo, dunque, di fronte a un ciclo “individuale” di reincarnazioni, legato cioè alle vicende dell’individuo, e a un ciclo “cosmico”, che è il ciclo millenario. Appunto a quest’ultimo si riferiscono i due celebri miti: di Er, contenuto nella Repubblica, e del carro alato, contenuto nel Fedro, che ora esamineremo.
◗ Il mito di Er
Nel celebre mito di Er, con cui si chiude la Repubblica, si narra il ritorno delle anime su questa terra. Terminato il loro viaggio millenario, le anime convengono su una pianura, dove viene determinato il loro destino futuro. E a questo riguardo opera un’autentica rivoluzione della tradizionale credenza greca, secondo la quale sarebbero gli dei e la Necessità a decidere il destino dell’uomo. I “paradigmi delle vite”, dice al contrario , stanno in grembo alla Moira Lachesi, figlia di Necessità; ma essi non sono imposti, bensì solo proposti alle anime, e la scelta è interamente consegnata alla libertà delle anime stesse. L’uomo non è libero di scegliere se vivere o non vivere, ma è libero di scegliere come vivere moralmente, ossia se vivere secondo la virtù o secondo il vizio: «E raccontò Er che, come giunsero quivi, dovettero andar da Lachesi; e che un profeta, prima di tutto, dispose le anime in ordine, e prendendo poi dalle ginocchia di Lachesi le sorti e i paradigmi delle vite, salito sopra un alto pulpito disse: Questo dice la vergine Lachesi, figlia della Necessità: “Anime effimere, è questo il principio d’un altro periodo di quella vita che è un correre alla morte. Non sarà il demone a scegliere voi, ma sceglierete voi il vostro demone. E il primo tratto a sorte scelga primo la vita alla quale poi dovrà di necessità essere legato. La virtù non ha padrone: secondo che ciascuno la onora o la dispregia, avrà più o meno di lei. La colpa è di chi sceglie. Dio non ne ha colpa».
Detto questo, il profeta di Lachesi getta a sorte i numeri per stabilire l’ordine con cui ciascuna anima deve recarsi a scegliere: il numero che tocca a ciascuna anima è quello che le cade più vicino. Quindi il profeta stende sul prato i paradigmi delle vite (paradigmi di tutte le possibili vite umane e anche animali), in numero molto superiore a quello delle anime presenti. Il primo cui tocca la scelta ha a disposizione molti più paradigmi di vita che non l’ultimo; ma questo non condiziona in maniera irreparabile il problema della scelta: anche per l’ultimo resta la possibilità di scelta di una vita buona, anche se non di una vita ottima.
La scelta fatta da ogni anima viene poi suggellata dalle altre due Moire, Cloto e Atropo, e diventa, così, irreversibile. Le anime bevono, quindi, la dimenticanza nelle acque del fiume Amelete (“fiume della dimenticanza”) e poi scendono nei corpi, in cui realizzano la vita scelta. Abbiamo detto che la scelta dipende dalla libertà delle anime, ma sarebbe più esatto dire dalla conoscenza, o dalla scienza della vita buona e di quella cattiva, cioè dalla filosofia, che per diventa, dunque, forza che salva nell’aldiqua e nell’aldilà, per sempre. L’intellettualismo etico è qui spinto a conseguenze estreme: «Poiché, se uno sempre – dice – quando giunga alla vita di qua, si dia a filosofare sanamente, e la sorte della scelta non gli tocchi tra gli ultimi, c’è per lui la possibilità, giusto quanto Er riferiva di quel mondo, non solo di esser felice in questa terra, ma anche il viaggio di qui a là e di nuovo a qui non sarà sotterraneo e malagevole, ma piano e per il cielo».
◗ Il mito del carro alato
ha riproposto nel Fedro una visione dell’aldilà ancora più complessa. Le ragioni sono probabilmente da ricercare nel fatto che nessuno dei miti sinora esaminati spiega la causa della discesa delle anime nei corpi, la primigenia vita delle anime stesse, e le ragioni della loro affinità con il divino.
[pag.185]Originariamente l’anima era presso gli dei e viveva al seguito degli dei una vita divina, ed è caduta in un corpo sulla terra per una colpa. L’anima è come un carro alato condotto da un auriga e tirato da due cavalli. Mentre i due cavalli degli dei sono egualmente buoni, i due cavalli delle anime degli uomini sono di razza diversa: uno è buono, l’altro cattivo e la guida risulta difficile (l’auriga simboleggia la ragione, i due cavalli le parti alogiche dell’anima, ossia quella irascibile e quella concupiscibile, su cui torneremo più avanti; secondo alcuni, però, simboleggerebbero i tre elementi con cui il Demiurgo nel Timeo ha foggiato l’anima). Le anime procedono al seguito degli dei, volando per le strade del cielo, e la loro meta è quella di pervenire periodicamente, insieme agli dei, fino alla sommità del cielo, per contemplare ciò che sta al di là del cielo, l’Iperuranio (il mondo delle Idee) o, come anche dice, «la Pianura della verità». Ma, a differenza di ciò che accade per gli dei, per le nostre anime è ardua impresa il poter contemplare l’Essere che è al di là del cielo, e il potere pascersi nella Pianura della verità, Essere è al di là esserevento “enti matematici”.


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